La parola d’ordine è “cambiamento”. Insomma nessun desiderio esplicito di scappare ai Caraibi o di stare in infradito per tutta la vita sulle sabbie tropicali (anche se in effetti anche quello sarebbe un bel cambiamento!). Chi oggi si dimette lo fa per guadagnare di più, ma soprattutto per stare meglio. Quindi quando parliamo di Grandi Dimissioni non dobbiamo pensare a un fenomeno in cui il soggetto dimissionario getta la spugna, ma a una scelta, a una pulsione verso il meglio della persona che ambisce ad altro rispetto a quel che ha.
È forse quel riscatto che con occhi lucidi già ammiravamo nel ragionier Fantozzi quando prendeva la parola durante la proiezione de La Corazzata Potëmkin o durante la partita di biliardo in cui non abbassava la testa davanti all’On. Cav. Conte Diego Catellani o ancora quando, incitato dal compagno Folagra, scrive in cielo insulti al Megadirettore Generale. Lì c’era un desiderio di ricatto verso l’ineluttabilità di una condizione operaia vessante e completamente desindacalizzata. Oggi che quelle condizioni di lavoro sono cambiate e che i processi lavorativi si depersonalizzano davanti allo schermo di un PC. Sarebbe quindi un errore credere che il fenomeno delle Grandi Dimissioni (Great Resignation) di cui oggi molto si parla sia un adeguamento verso il basso e un gettare la spugna.
Possiamo definire infatti le Grandi Dimissioni come una tendenza economica in cui i dipendenti si dimettono volontariamente in massa dai loro posti di lavoro. Il fenomeno è iniziato nell'estate 2021 negli Stati Uniti d'America, dopo che il governo si è rifiutato di fornire protezioni ai lavoratori in risposta alla pandemia di COVID-19, con conseguente stagnazione mentre aumentava il costo della vita.
Con il passare del tempo in realtà il fenomeno si è staccato dalla cornice pandemica e ha rivelato caratteri ben più strutturali e strutturati: Se andiamo ad indagare la radice della scelta tra i lavoratori che hanno dichiarato di essere più propensi a cambiare attività, il 44% si sente oberato, il 38% fatica a pagare le bollette ogni mese, mentre il 35% fa parte della Gen Z. Sono solo alcuni dei dati emersi dell’indagine di PwC Hopes and Fears Global Workforce Survey, che ha analizzato gli atteggiamenti e i comportamenti di quasi 54mila lavoratori in 46 paesi. A livello mondiale il 26% dei dipendenti (rispetto al 19% del 2022) afferma di voler cambiare lavoro nei prossimi 12 mesi.
In Italia si registrano percentuali analoghe, con il 25% degli intervistati che dichiara di voler cambiare lavoro entro 12 mesi. Una quota che aumenta tra le giovani generazioni, con il 37% della Gen Z e il 32% dei millennial.
Ancora una volta, quindi, usare la parola “dimissioni” è un voler mettere l’accento sul meno, quando invece andrebbero sottolineati gli aspetti positivi che derivano da queste scelte. Ossia i cosiddetti “più” che si guadagnano, innanzitutto nel trovare altri spazi legati alla qualità della vita.
In primis si nota una certa tendenza a non considerare più il lavoro come tempo necessario speso per guadagnarsi il sostentamento, ma anche come realizzazione della persona. Il lavoro non è, dunque, mero mezzo di sostentamento e ciò fa sì che si preferiscano delle soluzioni che una volta sarebbero state considerate meno vantaggiose. Certo, forse non tutti condividono questa mentalità sottrattiva, ma di fatto c’è.
In quanto fenomeno decisamente recente, se parliamo di Grandi Dimissioni, ancora oggi non si riescono a disegnare dei confini netti. Ecco perché bisogna distinguere tra due ipotesi che comportano lo stesso esito. La prima è un tema di formazione. L’intercambiabilità di ruoli e lavori forse significa che la formazione specifica sta fallendo o che la formazione continua dà molte più possibilità rispetto al percorso di carriere a cono o imbuto a cui eravamo abituati.
E poi c’è che le persone sono meno disponibili, ed è una differenza molto importante: se sono preparate e non vogliono fare certi lavori, è un cambiamento più grave e profondo che investe ogni settore. Significa che il lavoro avrà meno peso nell’orizzonte di vita. E ciò avrà altre conseguenze, sulla famiglia tradizionale o sul fatto che per avere un reddito non si accetterà più qualsiasi lavoro. Non ci si morde la lingua e si diventa un Fantozzi senza freni inibitori, sempre… e non è un non voler fare sacrifici in generale come qualcuno sostiene (Briatore & Co. in testa), ma è un non voler fare sacrifici a scatola chiusa. E il cambio di rotta viene proprio dalle nuove generazioni che sono molto selettive rispetto alla gavetta: il loro atteggiamento motivazionale è diverso rispetto a quanto era usuale: contano meno sia la carriera che il successo. C’è più interesse per l’immateriale. A che cosa è legato? È qualcosa che riguarda solo le nuove generazioni? Sono le motivazioni che finora ci mancano per capire il tutto.
La sicurezza non è più un valore. E da ultimo viene a scardinarsi un punto fisso che soprattutto nel nostro Paese ha generato non poche discussioni a partire da Checco Zalone in giù. Queste grandi dimissioni sono un fenomeno sistemico che è esploso oggi, ma era in preparazione già da diversi anni: il mondo del lavoro per come è stato tradizionalmente inteso e organizzato non risponde più alle necessità e ai desideri dei lavoratori attuali, soprattutto i più giovani. Fino a qualche anno fa si decideva di cedere sulla soddisfazione personale a favore della sicurezza: ora che anche quest’ultima non è più garantita, vale davvero la pena non provare a realizzarsi? Inutile cercare il posto fisso che tanto non c’è. Meglio il posto che mi gratifica e mi fa stare bene. E domani si vedrà.
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